WhatsApp, i messaggi scambiati valgono come prove a fini processuali

2 Febbraio 20182 commenti

WhatsApp, con relative conversazioni tra gli utenti, può rappresentare una valida discriminante probatoria nel corso di un processo. Lo conferma la sentenza del 16 gennaio 2018, n. 1822, della Corte Suprema di Cassazione - Sezione Quinta Penale.

Le chat di WhatsApp sono prove a tutti gli effetti in ambito processuale

Alcuni passaggi della sopracitata sentenza chiariscono meglio il punto di vista della Corte.

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Apprendiamo che:

I dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono in uso all’indagata (sms, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p.. La relativa attività acquisitiva non soggiace nè alle regole stabilite per la corrispondenza, nè tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche.

 

Secondo l’insegnamento della Corte di legittimità non è applicabile la disciplina dettata dall’art. 254 c.p.p., con riferimento a messaggi WhatsApp e SMS rinvenuti in un telefono cellulare sottoposto a sequestro, in quanto questi testi non rientrano nel concetto di “corrispondenza”, la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito (Sez. 3, n. 928 del 25/11/2015, dep. 2016, Giorgi, Rv. 265991).

 

Non è configurabile neppure un’attività di intercettazione, che postula, per sua natura, la captazione di un flusso di comunicazioni in corso, mentre nel caso di specie ci si è limitati ad acquisire ex post il dato, conservato in memoria, che quei flussi documenta.

Non ci sono scuse. Le “conversazioni digitali”, anche tramite e-mail e classici SMS, possono essere portate all’attenzione del giudice in tribunale. 

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Il consiglio, pertanto, vien da sé: fate molta attenzione ai messaggi che inviate ai vostri contatti, che si tratti di WhatsApp o di client e servizi alternativi.

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