Come saprete, negli scorsi giorni alla Camera è arrivato un emendamento alla Legge di Stabilità che introduce la cosiddetta Web Tax. Questo, e altri provvedimenti di recente adozione, potrebbero segnare una svolta non positiva per la Rete italiana.
L’emendamento, proposto dal Presidente della Commissione Bilancio della Camera Francesco Boccia (PD) al Senato, inizialmente respinto e poi riproposto da e approvato alla Commissione Bilancio alla Camera, mira ad obbligare chi volesse acquistare servizi online o pubblicità a rivolgersi unicamente a soggetti in possesso di partita IVA italiana: si tratta del primo provvedimento in merito tra i Paesi dell’Unione (anche se in fatto di tasse da tempo non ci batte nessuno: ricordate, ad esempio, quanto visto per l’equo compenso?)
1. I soggetti passivi che intendano acquistare servizi on line sia come commercio elettronico diretto che indiretto, anche attraverso centri media ed operatori terzi, sono obbligati ad acquistarli da soggetti titolari di una partita IVA italiana.
2. Gli spazi pubblicitari on line e i link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei risultati dei motori di ricerca (altrimenti detti servizi di search advertising) , visualizzabili sul territorio italiano durante la visita di un sito o la fruizione di un servizio on line attraverso rete fissa o rete e dispositivi mobili, devono essere acquistati esclusivamente attraverso soggetti (editori, concessionarie pubblicitarie, motori di ricerca o altro operatore pubblicitario) titolari di partita IVA italiana. La disposizione si applica anche nel caso in cui l’operazione di compravendita sia stata effettuata mediante centri media, operatori terzi e soggetti inserzionisti.
3. Il regolamento finanziario, ovvero il pagamento, degli acquisti di servizi e campagne pubblicitarie on line deve essere effettuato dal soggetto che ha acquistato servizi o campagne pubblicitarie on line esclusivamente tramite lo strumento del bonifico bancario o postale, ovvero con altri strumenti di pagamento idonei a consentire la piena tracciabilità delle operazioni ed a veicolare la partita IVA del beneficiario.
Una proposta, nota inizialmente con l’evocativo nome di Google Tax, elaborata per impedire ai giganti del Web di sfruttare regimi fiscali vantaggiosi come Irlanda o Lussemburgo, operando liberamente negli altri Paesi dell’Unione Europea, ma che nei fatti si applicherà a tutti i fornitori, giganti o meno.
Il tutto, come dicevamo, mentre in Europa la discussione nel merito tra i 28 Paesi membri è in pieno svolgimento: l’Italia ha voluto dunque anticipare i tempi ponendosi, secondo molti osservatori, apertamente in contrasto con uno dei principi ispiratori dell’Unione, quello relativo alla libera circolazione di prodotti e servizi, e in una posizione quantomeno illogica in quello che dovrebbe effettivamente essere un mercato unico. Come riferito dal Sole24Ore, infatti, la Commissione Europea ha già informalmente agitato lo spauracchio della procedura d’infrazione, qualora il provvedimento divenisse legge.
Anche il Dipartimento delle Finanze del Ministero dell’Economia evidenzia come la norma sia incompatibile sia con la Costituzione italiana che con i principi europei:
La proposta appare in contrasto con i principi di libertà di stabilimento e di libera circolazione delle merci dei servizi e dei capitali di cui all’articolo 26 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). La proposta appare inoltre in contrasto con i principi di cui all’art. 41 della Costituzione che stabilisce la libertà dell’iniziativa economica privata, che implica anche la libertà di commerciare fuori dei confini del territorio nazionale
Diverse critiche al provvedimento sono state levate da numerosi punti di vista. L’economista Jeremy Rifkin, interpellato da Wired, sottolinea la necessità di una normativa condivisa:
“La fiscalità delle multinazionali online è solo parte di un problema più ampio, che si presenta quando le comunità social hanno in realtà dei fini commerciali. È il caso di colossi online come Google, Facebook e Twitter, che stanno diventando sempre più simili a dei monopoli. Le informazioni che condividiamo attravero questi canali sono vendute e utilizzate per generare profitti. L’interrogativo, oggi, è questo: come regolare tale flusso di profitti?”.
Secondo Rifkin non è l’Italia, da sola, a poter tracciare una cornice normativa entro la quale ricondurre le attività delle multinazionali online.
“La Google Tax cerca di dare una risposta vecchio stile a un problema nuovo. Ma Google e simili non sono realtà geograficamente confinate; agiscono nello spazio virtuale della rete. Non sta all’Italia dare delle regole autonome, ma servirebbe una convergenza dei vari Stati, delle imprese, e dei cittadini-utenti per creare una normativa standard e condivisa da tutti gli operatori coinvolti a livello internazionale”.
Ecco invece l’opinione dell’American Chamber of Commerce in Italy:
«Gli ispiratori della Web Tax dovrebbero riflettere sul danno d’immagine per l’Italia provocato da questo provvedimento agli occhi della comunità internazionale» – dichiara in una nota Simone Crolla, Consigliere Delegato dell’American Chamber of Commerce in Italy – «Gli emendamenti alla Legge di Stabilità 1.1702 e 1.1643, già approvati dalla Commissione Bilancio della Camera, rappresentano l’ennesima dimostrazione di autoreferenzialità ed arroccamento del ceto politico italiano, che non consente l’apertura di un serio ed approfondito dialogo su questa materia, delicata e strategica per il futuro. L’ascolto dovrebbe essere un elemento fondamentale nel processo legislativo».
«Noi, come American Chamber of Commerce in Italy, nell’ultimo mese abbiamo scritto a tutte le forze politiche e alle istituzioni coinvolte, spiegando in maniera costruttiva le ragioni delle aziende USA e chiedendo un incontro nel quale affrontare in modo proattivo la tematica. Non abbiamo ricevuto risposte» – continua Simone Crolla – «Non solo quelle americane, ma tutte le aziende straniere del settore digitale non sono evasori, bensì investitori che rispettano le normative fiscali europee, giuste o sbagliate che siano. Invito a considerare, inoltre, l’enorme impatto che la loro presenza ha nello sviluppo dell’ecosistema digitale italiano, promuovendo la cosiddetta “app economy”, favorendo la nascita di start-up tecnologiche, contribuendo con specifici programmi educational alla formazione dei nostri studenti, sviluppando talenti e migliorando il know-how manageriale. I nostri ragazzi vengono educati ad essere ambiziosi e creativi. Tutto questo non avviene in Irlanda o in Lussemburgo, ma nel nostro Paese».
«La Web Tax, che impone l’apertura di una partita IVA italiana e ridefinisce il concetto di stabile organizzazione, è il tentativo di assoggettare le aziende digitali estere alle normative fiscali italiane, provocando un danno sia ai produttori che ai consumatori. L’incompatibilità di questi emendamenti rispetto alle normative europee esporrà l’Italia ad una possibile procedura d’infrazione» – conclude Simone Crolla, che dal 2009 guida l’AmCham Italy – «In tal senso, ben venga la prima apertura sul tema dal nuovo Segretario del PD».
Carlo Alberto Carnevale Maffè, docente alla Bocconi, parla delle possibili ripercussioni:
“Boccia dimostra dimostra di non saper distinguere un server da uno scaldabagno: tutti e due hanno la luce rossa, ma non sono la stessa cosa”.
“Se chi vende pubblicità online, da Google a un sito asiatico specializzato su cui un’azienda italiana di macchinari deve acquistare uno spazio, dovesse decidere di non farlo più in Italia per non sottostare agli obblighi della Web tax, onerosi soprattutto per chi raccoglie poche decine di migliaia di euro dagli investitori del nostro paese, saremmo tagliati fuori dal flusso pubblicitario globale“.
“Non solo, oltre all’impossibilità di importare pubblicità bisogna considerare il rischio di ritorsioni da parte degli altri stati, che potrebbero costringere tutte le piccole imprese italiane che esportano via e-commerce ad aprire sedi in altri paesi del mondo”.
Insomma, posto che una regolamentazione in merito va applicata, un provvedimento del genere, portato avanti in maniera autonoma rispetto a un contesto in cui, piaccia o no, si è inseriti, porterebbe probabilmente l’Italia a un isolamento digitale di cui non si sente davvero il bisogno. Voi cosa ne pensate?